03/04/13

MEMORIES OF MURDER (Salinui chueok)



http://www.imdb.com/title/tt0353969/

“Basato su una storia vera accaduta sotto una dittatura militare.”
Così si apre Memories of Murder, secondo lungometraggio di quel Bong Joon-Ho che, solo tre anni prima, si faceva notare per la deliziosa commedia nera intitolata Barking Dogs Never Bite (di cui abbiamo parlato nel #2), da cui riprende il filo del discorso iniziato sulla critica al malessere della società coreana.
In più, Memories of Murder è uno di quei film tremendamente difficili da recensire, essendo molto particolare e parecchio lontano dagli stilemi dei thriller classici. Insomma, non puoi scrivere qualcosa senza incappare in un dannato spoiler! Anche se MoM non è certo un film che si regge unicamente sull’identità dell’assassino.

Ma inquadriamo meglio il contesto in cui si svolge il film, con una morbosetta lezione di storia: tra l’ottobre 1986 e l’aprile 1991, in Corea, furono commessi dieci omicidi nella zona di Hwaseong. Le vittime, tutte donne di età variabile, dai 13 ai 60 anni, vennero imbavagliavate con la loro biancheria intima, dopodichè stuprate e poi uccise. Oltre 300.000 poliziotti  presero parte alle indagini e oltre 3.000 indagati vennero interrogati.

La pellicola racconta infatti questo brutale e reale fatto di cronaca nera: un piccolo paese di provincia viene scosso dal brutale omicidio di una donna. A condurre le indagini saranno inizialmente due poliziotti locali che si baseranno unicamente sul loro istinto, fornendo prove false e torturando i sospetti; visto l’insuccesso delle indagini e la scoperta di un nuovo omicidio, interverrà per dare una mano un poliziotto di Seul, che fa della razionalità il suo tratto più marcato.

Bong Joon-ho sceglie di raccontare questa storia soprattutto per il momento molto importante della storia coreana: in quegli anni, infatti, la nazione era sotto il dominio autocratico della Quinta Repubblica. Da qui possiamo già intuire l’approccio che utilizzerà per raccontarci questa vicenda.

Il film è scisso in due parti ben evidenti: nella prima, assistiamo alle indagini della polizia, non coinvolta più di tanto nell’accaduto. La goffaggine e la vistosa incapacità dei poliziotti nel risolvere il caso, provocano nello spettatore, paradossalmente, un certo divertimento e quindi un muro immaginario, che impedisce la creazione di un qualsivoglia coinvolgimento emotivo. Nella seconda parte, invece, i poliziotti si lasciano coinvolgere sempre di più nel caso, arrivando ai limiti della sopportazione: lo spettatore verrà trascinato nel corso degli eventi, e infatti, nel lento incedere della pellicola, non si potrà non provare un miscuglio di emozioni come angoscia o rabbia.
E’ proprio questo che dà quella marcia in più al film, esulandolo dai soliti film di genere: come thriller funziona, e anche bene, ma quello che lo rende particolare è proprio la capacità del regista di riuscire a rendere palpabile l’ossessione che attanaglia sempre di più questi uomini, impegnati in una caccia all’uomo apparentemente senza speranze. Il nostro punto di vista è quello delle forze dell’ordine, il killer appare in rare sequenze e quasi mai all’opera, in questo caso non è la follia dell’assassino, il dramma delle vittime o il sanguinario “modus operandi” del maniaco ad essere messo in primo piano, bensì la disperazione e l’ossessione delle autorità rese impotenti dall’abilità del killer e soprattutto dall’inadeguatezza degli strumenti a disposizione per catturarlo.
Non mancano delle accuse da parte del regista alle autorita’ coreane, decise, come si diceva, a falsare le prove pur d’incastrare qualcuno, secondo un trattamento violento e umiliante (fastidioso e, per questo, ben rappresentato).

Non solo, ciò che colpisce è l’abilità di coniugare diversi generi all’interno del flusso narrativo principale: si passa dalla commedia al grottesco, al dramma privato e collettivo, senza soluzione di continuità. Segno di una facilità disarmante che Bong Joon-Ho aveva già dimostrato di padroneggiare nella pellicola d’esordio, destrutturando i codici narrativi di genere (e non).

E' una storia di violenza e sopraffazione (i poliziotti vogliono a tutti i costi incastrare qualcuno, perciò picchiano selvaggiamente lo "scemo del villaggio"), di presunzione (il detective di Seul che dovrebbe fare da supporto alla polizia locale e che finisce per entrare nella stessa spirale di violenza), di incomprensione, di sconfitta e di rinuncia.
E mentre il cosiddetto ordine pubblico si rivela prigioniero della prepotenza messa in atto dalle istituzioni, giovani donne continuano a morire misteriosamente, prima stuprate e poi strangolate.
La cupezza e il pessimismo che permeano questa pellicola, danno all’opera un’anima nera, nerissima, soprattutto dopo la visione del devastante finale, ambientato nel 2003.
Una detective story che ha il pregio e, soprattutto, il coraggio, di non cercare favori dal pubblico, di trascendere il genere per allargare la sua visione, accompagnata da una bellissima colonna sonora, mai aggressiva ma dannatamente coinvolgente.




(Articolo originariamente apparso su Mangaijin #3

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