http://www.imdb.com/title/tt0353969/ |
“Basato su una
storia vera accaduta sotto una dittatura militare.”
Così si apre Memories of Murder,
secondo lungometraggio di quel Bong Joon-Ho che, solo tre anni prima, si
faceva notare per la deliziosa commedia nera intitolata Barking Dogs Never
Bite (di cui abbiamo parlato nel #2), da cui riprende il filo del discorso
iniziato sulla critica al malessere della società coreana.
In più, Memories
of Murder è uno di quei film tremendamente difficili da
recensire, essendo molto particolare e parecchio lontano dagli stilemi dei
thriller classici. Insomma, non puoi scrivere qualcosa senza incappare in un
dannato spoiler! Anche se MoM non è certo un film che si regge unicamente
sull’identità dell’assassino.
Ma inquadriamo meglio il contesto in cui si
svolge il film, con una morbosetta lezione di storia: tra l’ottobre 1986 e
l’aprile 1991, in Corea, furono commessi dieci omicidi nella zona di
Hwaseong. Le vittime, tutte donne di età variabile, dai 13 ai 60 anni, vennero
imbavagliavate con la loro biancheria intima, dopodichè stuprate e poi uccise. Oltre
300.000 poliziotti presero parte alle
indagini e oltre 3.000 indagati vennero interrogati.
La pellicola racconta infatti questo brutale
e reale fatto di cronaca nera: un piccolo paese di provincia viene scosso dal
brutale omicidio di una donna. A condurre le indagini saranno inizialmente due
poliziotti locali che si baseranno unicamente sul loro istinto, fornendo prove
false e torturando i sospetti; visto l’insuccesso delle indagini e la scoperta
di un nuovo omicidio, interverrà per dare una mano un poliziotto di Seul, che fa
della razionalità il suo tratto più marcato.
Bong Joon-ho sceglie di raccontare questa
storia soprattutto per il momento molto importante della storia coreana: in quegli
anni, infatti, la nazione era sotto il dominio autocratico della Quinta
Repubblica. Da qui possiamo già intuire l’approccio che utilizzerà per
raccontarci questa vicenda.
Il film è scisso in due parti ben evidenti: nella
prima, assistiamo alle indagini della polizia, non coinvolta più di tanto
nell’accaduto. La goffaggine e la vistosa incapacità dei poliziotti nel
risolvere il caso, provocano nello spettatore, paradossalmente, un certo
divertimento e quindi un muro immaginario, che impedisce la creazione di un qualsivoglia
coinvolgimento emotivo. Nella seconda parte, invece, i poliziotti si lasciano
coinvolgere sempre di più nel caso, arrivando ai limiti della sopportazione: lo
spettatore verrà trascinato nel corso degli eventi, e infatti, nel lento
incedere della pellicola, non si potrà non provare un miscuglio di emozioni
come angoscia o rabbia.
E’ proprio questo che dà quella marcia in più al
film, esulandolo dai soliti film di genere: come thriller funziona, e anche
bene, ma quello che lo rende particolare è proprio la capacità del regista di
riuscire a rendere palpabile l’ossessione che attanaglia sempre di più questi
uomini, impegnati in una caccia all’uomo apparentemente senza speranze. Il
nostro punto di vista è quello delle forze dell’ordine, il killer appare in rare
sequenze e quasi mai all’opera, in questo caso non è la follia dell’assassino,
il dramma delle vittime o il sanguinario “modus operandi” del maniaco ad essere
messo in primo piano, bensì la disperazione e l’ossessione delle autorità rese
impotenti dall’abilità del killer e soprattutto dall’inadeguatezza degli
strumenti a disposizione per catturarlo.
Non mancano delle accuse da parte del regista alle autorita’ coreane, decise, come si diceva, a falsare le prove pur d’incastrare qualcuno, secondo un trattamento violento e umiliante (fastidioso e, per questo, ben rappresentato).
Non mancano delle accuse da parte del regista alle autorita’ coreane, decise, come si diceva, a falsare le prove pur d’incastrare qualcuno, secondo un trattamento violento e umiliante (fastidioso e, per questo, ben rappresentato).
Non solo, ciò che colpisce è l’abilità di
coniugare diversi generi all’interno del flusso narrativo principale: si passa
dalla commedia al grottesco, al dramma privato e collettivo, senza soluzione di
continuità. Segno di una facilità disarmante che Bong Joon-Ho aveva già
dimostrato di padroneggiare nella pellicola d’esordio, destrutturando i codici
narrativi di genere (e non).
E' una storia di violenza e sopraffazione (i
poliziotti vogliono a tutti i costi incastrare qualcuno, perciò picchiano
selvaggiamente lo "scemo del villaggio"), di presunzione (il detective
di Seul che dovrebbe fare da supporto alla polizia locale e che finisce per entrare
nella stessa spirale di violenza), di incomprensione, di sconfitta e di
rinuncia.
E mentre il cosiddetto ordine pubblico si rivela prigioniero della prepotenza messa in atto dalle istituzioni, giovani donne continuano a morire misteriosamente, prima stuprate e poi strangolate.
E mentre il cosiddetto ordine pubblico si rivela prigioniero della prepotenza messa in atto dalle istituzioni, giovani donne continuano a morire misteriosamente, prima stuprate e poi strangolate.
La cupezza e il pessimismo che permeano questa
pellicola, danno all’opera un’anima nera, nerissima, soprattutto dopo la
visione del devastante finale, ambientato nel 2003.
Una detective story che ha il pregio e, soprattutto, il coraggio, di
non cercare favori dal pubblico, di trascendere il genere per allargare la sua
visione, accompagnata da una bellissima colonna sonora, mai aggressiva ma
dannatamente coinvolgente.
(Articolo originariamente apparso su Mangaijin #3)
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