http://www.imdb.com/title/tt1728196/ |
Ma è anche un
autore estremamente prolifico: dal 1990 ad oggi (gennaio 2013) ha girato una
settantina di film, senza contare gli home video, i drama e una manciata di
serie tv. Diversamente da quanto si potrebbe pensare, buona parte dei film di
Miike si assestano su un buon livello, se non addirittura ottimo, con picchi di
capolavoro.
Ma non è solo a
questo che il regista giapponese deve la sua fama: è riuscito a creare una
visione grondante all’eccesso sangue e viscere. E’ la norma imbattersi in scene
velocissime, dal ritmo convulso, pulsanti violenza, spesso popolate da psicopatici,
da perversioni sessuali, da dinamiche grottesche e assurde. Un regista capace
di passare con estrema disinvoltura da pellicole come Ichi the Killer, Izo
o Dead or Alive, a Zebraman o Yattaman The Movie: film
diversissimi tra loro, ma pregni comunque di una personale poetica.
E’ uno dei più
ambigui autori provenienti dal Sol Levante, meritevole dell’appellativo di
“regista cult”.
Nella sua
lunghissima filmografia, ci si accorge che Miike affronta il jidai-geki
solo due volte (per ora) con due remake. Cos’è il jidai-geki? E’ un genere
in cui vengono narrate le vicende di persone vissute nel periodo Edo o Tokugawa
(1603-1868), che spesso e volentieri va a braccetto con un altro genere noto
come chambara (il “cappa e spada” giapponese).
Si diceva, nel
2010, Miike gira il suo primo jidai-geki, Jûsan-nin no shikaku (13
Assassini), remake del film di Eiichi Kudo del 1963, giunto miracolosamente
anche nelle sale italiane. Curiosamente, il prolifico regista giapponese
continua nella sua personale interpretazione del jidai-geki con il
rifacimento di Seppuku (Harakiri), film cult del 1962, diretto da
Masaki Kobayashi. Ichimei (“sopravvissuto”), questo il nuovo titolo
della storia, prelude ad una visione differente della pellicola di Kobayashi,
anche per via della tecnologia con la quale è stato girato, il 3D. Scelta
insolita per un film del genere. Fuori dal Giappone, invece, sarà conosciuto
con il titolo Hara-kiri: Death of a samurai.
Giappone. 1634:
Tsugumo, ronin in crisi economica, si presentata al palazzo del clan Iyi per
chiedere il permesso di praticare il suicidio rituale (seppuku/harakiri). Kageyu,
rettore della casa in assenza del daimyo, tenta di dissuaderlo raccontandogli
una storia accaduta poche settimane prima: alla loro porta aveva bussato un
giovane ragazzo, il quale avanzò la medesima richiesta. Costui, Motome Chijiwa,
non aveva però intenzione di suicidarsi, bensì di impietosire l'intendente
affinché potesse spillargli dei soldi, ma la richiesta venne presa alla lettera
e il ragazzo fu costretto a suicidarsi con la sua spada di legno, prolungando
così la sua agonia. E’ così che ha inizio un percorso a ritroso, nel tentativo
di ricostruire la vicenda che ha innescato tutto ciò.
Premetto: normalmente
non apprezzo i remake. Trovo siano inutili. Per giunta, considerata l’elevata
facilità di ripescaggio tramite internet di vecchie pellicole, negli ultimi
anni sono diventati ancora più superflui.
Considerando che si
tratta di un regista che ammiro, ho deciso di chiudere un occhio, e nell’attesa
della release di Ichimei, mi sono procurato il vecchio Seppuku:
in una struttura a flashback, il film di Kobayashi diventa “denuncia”, muovendo
una critica potente nei confronti della storica cultura giapponese, pregna del
concetto di onore samurai che viene prima di ogni altra cosa. Il lato oscuro
dei samurai, diciamo.
Insomma, un
filmone. Cieco di fiducia verso Miike, ho atteso la sua versione, e, dopo
averci finalmente messo le avide manine sopra, me lo sono sparato.
A fine visione, ero
turbato: una pellicola totalmente identica a quella del ’62, con più colori,
più neve e nuovi attori. Miike diventa Kobayashi, sovrappone il suo film all’opera
originale, persino nella scelta degli attori. Una sorta di copia carbone, con un
paio di differenze. Si diceva, in Seppuku, il dito era chiaramente
puntato verso l’ordine dei samurai e il loro onore; al contrario, Ichimei
di Miike si discosta parzialmente da questo tema, affrontando la mancanza di
umanità e di pietà in un contesto in cui non esiste perdono. Attraverso
Tsugumu, Miike condanna l'incapacità di empatizzare con un proprio simile, di capire
i suoi sentimenti, bloccato da regole che andrebbero in qualche modo riviste in
un’ottica diversa.
Un tipo di
approccio differente non solo nelle parole del ronin protagonista, ma anche nei
flashback: il dramma familiare costruito da Miike prende la strada (facile)
dell’emotività, si sofferma in struggenti dettagli per enfatizzare il
melodramma, al contrario delIa visione di Kobayashi, i cui flashback erano brevi,
rapidi, pieni di tensione.
Differiscono
anche le interpretazioni dei personaggi: l’Hanshiro Tsugumo interpretato dall’ottimo
Ebizo Ichikawa (esperto attore di kabuki) è più composto, sull’orlo di una
devastazione interna, pronta ad esplodere nella vendetta. Al contrario, l’interpretazione
di Tatsuya Nakadai nel 1962 era maestosa, pur con un aspetto devastato, bucava
lo schermo con quell’aspetto severo, scardinando l'onore del samurai a favore
dell'onore umano.
Stilisticamente,
Miike è tremendamente contenuto: paradossalmente, anche l’elemento più violento
viene praticamente soffocato, tranne per una delle scene iniziali dove il
seppuku, attuato con una spada di legno, diventa disturbante pur vedendo poco e
niente, al contrario dell’originale dove non si esitava a mostrare scene molto
crude.
Buone intuizioni
da parte di Miike provengono dalla ricostruzione storica ricca e dettagliata, e
il finale, con Tsugumo sotto la neve che combatte a lungo con la spada di bambù
contro una feroce schiera di samurai.
3D: ovviamente (e
per fortuna) non l'ho visto con questa tecnologia. Anche se mi domando per
quale motivo possa essere stato integrato in un film che non ne necessita, ma
qui aprirei un discorso infinito sull’inutilità del 3D.
(Articolo originariamente apparso su Mangaijin #3)
Nessun commento:
Posta un commento