25/03/13

HARA-KIRI: DEATH OF A SAMURAI (Ichimei)


http://www.imdb.com/title/tt1728196/
Takashi Miike è un folle.
Ma è anche un autore estremamente prolifico: dal 1990 ad oggi (gennaio 2013) ha girato una settantina di film, senza contare gli home video, i drama e una manciata di serie tv. Diversamente da quanto si potrebbe pensare, buona parte dei film di Miike si assestano su un buon livello, se non addirittura ottimo, con picchi di capolavoro.
Ma non è solo a questo che il regista giapponese deve la sua fama: è riuscito a creare una visione grondante all’eccesso sangue e viscere. E’ la norma imbattersi in scene velocissime, dal ritmo convulso, pulsanti violenza, spesso popolate da psicopatici, da perversioni sessuali, da dinamiche grottesche e assurde. Un regista capace di passare con estrema disinvoltura da pellicole come Ichi the Killer, Izo o Dead or Alive, a Zebraman o Yattaman The Movie: film diversissimi tra loro, ma pregni comunque di una personale poetica.
E’ uno dei più ambigui autori provenienti dal Sol Levante, meritevole dell’appellativo di “regista cult”.


Nella sua lunghissima filmografia, ci si accorge che Miike affronta il jidai-geki solo due volte (per ora) con due remake. Cos’è il jidai-geki? E’ un genere in cui vengono narrate le vicende di persone vissute nel periodo Edo o Tokugawa (1603-1868), che spesso e volentieri va a braccetto con un altro genere noto come chambara (il “cappa e spada” giapponese).
Si diceva, nel 2010, Miike gira il suo primo jidai-geki, Jûsan-nin no shikaku (13 Assassini), remake del film di Eiichi Kudo del 1963, giunto miracolosamente anche nelle sale italiane. Curiosamente, il prolifico regista giapponese continua nella sua personale interpretazione del jidai-geki con il rifacimento di Seppuku (Harakiri), film cult del 1962, diretto da Masaki Kobayashi. Ichimei (“sopravvissuto”), questo il nuovo titolo della storia, prelude ad una visione differente della pellicola di Kobayashi, anche per via della tecnologia con la quale è stato girato, il 3D. Scelta insolita per un film del genere. Fuori dal Giappone, invece, sarà conosciuto con il titolo Hara-kiri: Death of a samurai.

Giappone. 1634: Tsugumo, ronin in crisi economica, si presentata al palazzo del clan Iyi per chiedere il permesso di praticare il suicidio rituale (seppuku/harakiri). Kageyu, rettore della casa in assenza del daimyo, tenta di dissuaderlo raccontandogli una storia accaduta poche settimane prima: alla loro porta aveva bussato un giovane ragazzo, il quale avanzò la medesima richiesta. Costui, Motome Chijiwa, non aveva però intenzione di suicidarsi, bensì di impietosire l'intendente affinché potesse spillargli dei soldi, ma la richiesta venne presa alla lettera e il ragazzo fu costretto a suicidarsi con la sua spada di legno, prolungando così la sua agonia. E’ così che ha inizio un percorso a ritroso, nel tentativo di ricostruire la vicenda che ha innescato tutto ciò.

Premetto: normalmente non apprezzo i remake. Trovo siano inutili. Per giunta, considerata l’elevata facilità di ripescaggio tramite internet di vecchie pellicole, negli ultimi anni sono diventati ancora più superflui.
Considerando che si tratta di un regista che ammiro, ho deciso di chiudere un occhio, e nell’attesa della release di Ichimei, mi sono procurato il vecchio Seppuku: in una struttura a flashback, il film di Kobayashi diventa “denuncia”, muovendo una critica potente nei confronti della storica cultura giapponese, pregna del concetto di onore samurai che viene prima di ogni altra cosa. Il lato oscuro dei samurai, diciamo.
Insomma, un filmone. Cieco di fiducia verso Miike, ho atteso la sua versione, e, dopo averci finalmente messo le avide manine sopra, me lo sono sparato.
A fine visione, ero turbato: una pellicola totalmente identica a quella del ’62, con più colori, più neve e nuovi attori. Miike diventa Kobayashi, sovrappone il suo film all’opera originale, persino nella scelta degli attori. Una sorta di copia carbone, con un paio di differenze. Si diceva, in Seppuku, il dito era chiaramente puntato verso l’ordine dei samurai e il loro onore; al contrario, Ichimei di Miike si discosta parzialmente da questo tema, affrontando la mancanza di umanità e di pietà in un contesto in cui non esiste perdono. Attraverso Tsugumu, Miike condanna l'incapacità di empatizzare con un proprio simile, di capire i suoi sentimenti, bloccato da regole che andrebbero in qualche modo riviste in un’ottica diversa.

Un tipo di approccio differente non solo nelle parole del ronin protagonista, ma anche nei flashback: il dramma familiare costruito da Miike prende la strada (facile) dell’emotività, si sofferma in struggenti dettagli per enfatizzare il melodramma, al contrario delIa visione di Kobayashi, i cui flashback erano brevi, rapidi, pieni di tensione.
Differiscono anche le interpretazioni dei personaggi: l’Hanshiro Tsugumo interpretato dall’ottimo Ebizo Ichikawa (esperto attore di kabuki) è più composto, sull’orlo di una devastazione interna, pronta ad esplodere nella vendetta. Al contrario, l’interpretazione di Tatsuya Nakadai nel 1962 era maestosa, pur con un aspetto devastato, bucava lo schermo con quell’aspetto severo, scardinando l'onore del samurai a favore dell'onore umano.

Stilisticamente, Miike è tremendamente contenuto: paradossalmente, anche l’elemento più violento viene praticamente soffocato, tranne per una delle scene iniziali dove il seppuku, attuato con una spada di legno, diventa disturbante pur vedendo poco e niente, al contrario dell’originale dove non si esitava a mostrare scene molto crude.
Buone intuizioni da parte di Miike provengono dalla ricostruzione storica ricca e dettagliata, e il finale, con Tsugumo sotto la neve che combatte a lungo con la spada di bambù contro una feroce schiera di samurai.

3D: ovviamente (e per fortuna) non l'ho visto con questa tecnologia. Anche se mi domando per quale motivo possa essere stato integrato in un film che non ne necessita, ma qui aprirei un discorso infinito sull’inutilità del 3D.

(Articolo originariamente apparso su Mangaijin #3

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